Quiet Quitting: ma davvero è una questione generazionale?

Smettiamo di chiamarlo “abbandono” (e di dare la colpa alle generazioni).

Negli ultimi anni, il termine Quiet Quitting ha generato interpretazioni spesso fantasiose, definizioni accattivanti associate alle generazioni. C’è chi descrive il fenomeno come il comportamento di chi, sul lavoro, fa “solo” ciò che è richiesto dal proprio ruolo. Né più, né meno. Niente straordinari non pagati, niente super impegno extra per dimostrare fedeltà all’azienda. Oppure, chi lo utilizza per indicare chi lo associa a dimissioni silenziose, o chi lo vede come una nuova forma di ribellione generazionale, una protesta muta contro il lavoro e le regole aziendali.

Fin qui, tutto sommato, nulla di nuovo. Ma il punto è un altro.

Questa tendenza viene troppo spesso descritta come tipica delle generazioni più giovani nel mondo del lavoro — Millennials, Gen Z — e qui nasce un problema serio: incasellare comportamenti complessi dentro etichette generazionali.

Provocazionema davvero pensiamo che fino a ieri tutti fossero disposti a dare l’anima al lavoro? Che solo oggi si faccia il “minimo sindacale”?

In realtà, nelle organizzazioni ci sono sempre state persone per cui il lavoro è (solo) un mezzo per vivere, non il centro dell’esistenza.  Non si tratta di generazioni, ma di scelte, valori, priorità individuali e professionali. Di fasi di vita personali, esperienze, circostanze e contesti. Certamente possiamo rilevare come alcune generazioni siano più ferme di altre nel rivendicare certi confini, o che vivano il rapporto con il lavoro in modo meno identitario. Ma è troppo facile — e poco utile — spiegare tutto solo con l’età anagrafica.


Il vero rischio del Quiet Quitting non è chi lo pratica, ma chi lo interpreta male.


Questa espressione ha dato il via a un’ondata di giudizi e stereotipi negativi, in particolare verso i più giovani creando etichette che giudicano o, peggio ancora, stigmatizzano, dimenticando che ogni persona porta con sé una visione unica del lavoro, della fatica, del tempo e del futuro.

Ma che cos’è, davvero il fenomeno del Quiet Quitting?

Quiet Quitting non significa lasciare il lavoro, bensì smettere di andare oltre quanto previsto dal proprio ruolo.

È il “no” a luoghi di lavoro che mancano di equità, struttura e allineamento con i valori delle persone e, di conseguenza dei dipendenti; a email fuori orario, al lavoro non retribuito, al “sacrificio” per il lavoro a tutti costi, considerato normale. È il “sì” al rispetto di confini e tempo personale.

Come se fosse colpa della Gen Z o dei Millennials se in azienda qualcuno non è più disposto a fare del lavoro il centro della propria vita.

Nelle organizzazioni ci sono sempre state persone per cui il lavoro è un mezzo, non un fine. Ci sono sempre stati lavoratori “essenziali”, che fanno bene ciò che devono senza investire energie emotive in più. Non è un male, né un fallimento. È una diversa concezione del lavoro.

Ridurre il Quiet Quitting a un “problema generazionale” è un falso problema, un errore strategico. Significa ignorare l’elefante nella stanza, ossia un cambiamento di valore del significato del lavoro nella vita delle persone, un malessere lavorativo trasversale che riguarda la cultura organizzativa, ma anche le aspettative manageriali e la qualità della leadership.

Cosa ci dicono le ricerche
  • Secondo Gallup (2022), almeno il 50% dei lavoratori americani può essere considerato quiet quitter, e il fenomeno è in crescita soprattutto dove manca il senso di appartenenza e di riconoscimento.
  • Come evidenziato in un articolo da Fast Company, il comportamento di molti giovani lavoratori è meno un disimpegno e più un rifiuto attivo di modelli organizzativi rigidi, autoritari e poco sostenibili. Non vogliono solo un lavoro; vogliono luoghi di lavoro che diano priorità alla sicurezza psicologica, alla trasparenza e all’equità. Eppure, molte aziende si aggrappano ancora a stili di gestione obsoleti: gerarchie rigide, aspettative incoerenti e percorsi di carriera vaghi.
  • Altre ricerche evidenziano come i casi di quiet quitting aumentino nei contesti in cui manca chiarezza sui ruoli, feedback costanti e possibilità di crescita.
E in Italia?

Anche nel nostro Paese il dibattito è attivo, ma tende a focalizzarsi su giovani “sfaticati” o poco motivati, dimenticando che il tema riguarda l’evoluzione del senso del lavoro per i singoli e per la società, che è cambiato il contratto tra individuo e azienda che regolamenta i parametri del lavoro.

In molte realtà aziendali italiane, soprattutto dove la cultura della performance è ancora legata alla disponibilità totale, il quiet quitting non è tanto un abbandono, ma una forma di autodifesa.

Cosa può (e deve) fare il mondo HR

Le risposte più utili non stanno nel giudizio, ma nella trasformazione culturale. Ecco alcune leve concrete:

  • Ascolto attivo e monitoraggio del clima: tramite survey interni e momenti di confronto reali.
  • Ridefinizione del concetto di impegno: un dipendente può essere coinvolto anche se non lavora oltre l’orario.
  • Sistemi di riconoscimento equi: non premiare solo chi “fa gli straordinari”, ma chi porta idee e risultati sostenibili.
  • Leadership diffusa: formare i manager per una gestione che valorizzi la motivazione intrinseca e il senso.
  • Benessere organizzativo: non come benefit accessorio, ma come parte del contratto implicito tra persone e azienda.

 Il Quiet Quitting non è un capriccio che riguarda i giovani o un problema da risolvere. È un sintomo da comprendere.

E magari, anche un invito a ripensare cosa intendiamo oggi per impegno, motivazione e senso del lavoro. Al di là delle generazioni.

Isabella Pierantoni, giugno 2025

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One Comment on “Quiet Quitting: ma davvero è una questione generazionale?”

  1. Sabrina

    Bella riflessione e molto ben sviluppata. Qui si trovano focus chiari per sviluppare una gestione che si orienti a modelli di lavoro moderni.
    Isabella come sempre riesce ad offrire uno sguardo professionale e privo di condanne !

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